venerdì 3 febbraio 2017

L'influenza



L’INFLUENZA      (03/02/2017)
Ringrazio di essere nato in un borgo di poche case: quattro in tutto, di un piccolo paese della pianura Padana a ridosso dell’argine del grande fiume.
Tanti prati, uno stradone lungo tra due file di pioppi. Lì, con tanti amici, ho imparato a nuotare nei canali, a correre scalzo a piedi nudi e a strisciarli a terra per alzare la polvere.
Ho bevuto acqua dai fossi e acchiappato rane e pesci con le mani nude.
In primavera a far gara chi raccoglieva più viole profumate per poi metterle a bagno in un bicchiere d’acqua.  A soffiare sui “brusaoci” e con il gambo tenuto tra le dita per farlo piegare, fintantoché non si terminava la cantilena “…… meopà le andà in parson par un gran ad furmaton …” e realizzare  trombette;  con i rami giovani di salice ho imparato a fare zufoli.
Ringrazio di aver giocato con quello che capitava: la “ lipa”, il “ maghin” e lo “s'cianco”.
Ringrazio gli uccelli per i loro nidi, poi noi a scalare gli alberi per osservare gli implumi uccellini.
La nonna che teneva in mano le ortiche per tagliarle e darle ai pulcini, mentre mi raccontava le storie del suo passato.
Ho vissuto tra buoi, mucche e saltellanti vitellini che correvano alle mammelle materne.
Una fattoria in piena regola con galline, faraone, tacchini e il maiale che urlava disperato a dicembre .
Mi son rimasti quei ricordi e quelle innocenti emozioni che a volte riappaiono nitide:
quando salivo sulla groppa della nostra cavalla mentre mio fratello la teneva per le redini, mi sembrava altissima.
Ringrazio per il pane che non è mai mancato a casa mia, la polenta e il companatico, neppure il vino e la grappa fatta in casa, rallegrando  le sere d’inverno quando i nostri vicini venivano a giocare a tombola o a briscola.
Ricordo il caldo crepitio del fuoco mentre fuori nevicava ed io segregato in casa sbirciavo dal vetro della finestra per controllare se "al trapulin" avesse preso qualche ignaro passero.
Immancabile l’influenza annuale che mi costringeva a letto con la febbre. La visita del medico. La paura mentre lo sentivo salire le scale e poi il responso: “punture”. Dall’ armadio usciva la scatola di alluminio con la siringa in vetro e un grosso ago che venivano fatti bollire sulla cucina a legna. Mia madre fungeva da infermiera “ sta fermo” girati e abbassati le mutandine. I miei fratelli mi tenevano, per quel che potevano, fermo mentre “l’infermiera” con un batuffolo di cotone imbevuto d’alcool mi strofinava la natica predestinata . “ non tener duro che ti fa più male”, parole inutili, io indurivo il muscolo ma l’ago entrava a svolgere la sua funzione.
Ero un signore  e neppure lo sapevo.
Quanta serenità in quella famiglia che sapeva godere di quel poco che c'era.
Ora che ci penso quanti regali ho avuto in tutti quei giorni che mi son sfuggiti come sabbia tra le dita.

                                                                                   FerMala