mercoledì 14 novembre 2012

La rota ad Po


14 novembre 1951la mia alluvione. “la rota ad Po”
 Ho, da poco meno di un mese, compiuto quattro anni. Da ore, da giorni, da settimane cade la pioggia e  tutto è fradicio, la vedo cadere copiosa, la sento battere sui coppi che coprono il tetto della nostra casa. Una grande fattoria con tutti gli animali che “usavano” quel tempo. Nella stalla un gran numero di vacche con i loro allegri vitellini. Due cavalli, galline, faraone, tacchini e due grossi maiali, che avevano il destino segnato da li a poche settimane. Completavano l’allegra compagnia un grosso cane lupo ed un gatto rosso. Il cane Leon, andava avanti e indietro sempre per lo stesso percorso, obbligato da un filo di ferro fissato tra la casa e la stalla dove scorreva la lunga catena che aveva attaccata al collo.                     
Nei volti e nelle espressioni della gente si intravvedeva tanta preoccupazione, frasi sottovoce, azioni preparatorie disposizioni che a quel tempo non capivo. “Il fiume Po minacciava di rompere gli argini”. 

La preoccupazione più grande era che ciò avvenisse a Ficarolo, dove il fiume fa un’ansa quasi ad angolo retto, in quel punto, la forza delle acque poteva rompere l’argine sinistro e riversare tutta la sua massa distruttrice verso la nostra casa.  Anche se distante qualche chilometro, il borgo di case era proprio sulla direttrice dell’eventuale corso d’acqua. La pioggia continuava a cadere abbondante. Tutti gli abitanti del borgo si stavano preparando al peggio ed avevano caricato le poche cose che possedevano sul carro, pronti per portarle in salvo sull’argine del Po.
Il mattino di lunedì 12 a mia sorella di undici anni erano state tolte le tonsille, all’ospedale di Santa Maria Maddalena ed era stata sistemata per la convalescenza da Ignazio, lo zio di mio padre, che abitava a qualche centinaio di metri dall’argine del Po.  Sistemata la bambina, mia madre ritornò a casa per preparare una leggera minestrina da portarle.  Era giunta ormai l’ora di pranzo a casa di Ignazio, la moglie , aveva già preparato per loro una pastasciutta condita con un ragù a base di salame, impietositi  dalla bambina che li guardava mangiare non si fecero scrupolo e ne fecero un bel piatto anche per lei, che incurante del proprio malanno mangiò, deglutendo a fatica i grossi pezzi di pasta e salame.    
La notte aveva fatto luna piena, la pioggia batteva con insistenza sui coppi e una luce tetra rischiarava di tanto in tanto il buio notturno.  Il 14 mattino si portarono tutti gli animali che si potevano sull’argine del Po.  Ho visto l’acqua schiumosa correre veloce trascinare alberi interi, il fiume era pieno fino all’orlo, sembrava che nel mezzo l’acqua fosse più alta della riva perché non si scorgeva la riva opposta, l’acqua limacciosa arrivava fin sopra l’argine, dove instancabili uomini continuavano a mettere sacchi riempiti di terra per fermarla.  Appena sotto l’argine spuntavano i  fontanazzi e bisognava correre subito a bloccare la fuoriuscita dell’acqua.  I nostri buoi erano legati con la cavezza al carro, dove i miei avevano disposto sopra un telone a protezione della pioggia, noi eravamo sistemati sotto.  Alla casa era rimasto Clemente, un altro zio di mio padre, a governare i pochi animali rimasti, lui aveva anche una decina di pecore sul fienile.  Nel pollaio avevano disposto delle fascine di legna dove i polli si sarebbero posati in caso di allagamento, mentre nel granaio erano state messe le faraone e i tacchini.  
Mia madre, era al sesto mese di gravidanza ed oltre a me aveva altri due figli quando le campane del pendente campanile di Ficarolo incominciarono a suonare a martello. “Il Po ha rotto l’argine a Bergantino”, la notizia risultò poi falsa, ma fu sufficiente per seminare il panico tra la gente “bisognava fare in fretta e rifugiarsi sugli argini perché l’acqua sarebbe arrivata da lì a poco”.  I miei due fratelli si trovavano a casa, quando la notizia si diffuse, mia madre tornò di corsa dall’argine del Po e iniziò a gridare da lontano per richiamare la loro attenzione affinché anche loro si mettessero al sicuro.
La sera di mercoledì 14, un grosso boato scosse la popolazione di Occhiobello: “Il Po ha rotto l’argine a Malcantone”. Fino al mare un’enorme distesa d’acqua. Sarà questa l’alluvione più estesa che possa ricordare l’Italia.  Prima l’acqua percorse in senso inverso i canali di scolo. Quello che avevamo dietro casa nostra aumentava di minuto in minuto la propria portata.  Il ponte, per arrivare a casa nostra, ne ostruiva il corso e l’acqua, come un in enorme getto spruzzava rumorosamente dalla parte opposta provocando un’enorme buca che rimase visibile per anni. Lo zio Clemente stava cenando quando sentì l’acqua bagnargli i piedi.  In fretta si spostò al piano superiore, dove stavano le faraone, guardava l’acqua salire di gradino in gradino alla fiocca luce della candela. Venne il giorno che la tempesta si fermò, smise di piovere e ritornò il sole. L’acqua era uscita quasi tutta dall’alveo del fiume, restava un piccolo corso che continuava ad alimentare l’enorme “lago Polesine”.  Il Po ora sembrava in una secca estiva.  Sull’ argine centinaia di persone con i loro fagotti di misere cose sistemate alla meno peggio. Acqua da tutte le parti, solo un lungo argine su cui eravamo naufraghi su ad una lunga isola, uniti a tanti altri disperati.  Eravamo riparati sotto il telone che d’estate copriva il frumento sull’aia. Ricordo i buoi, con le lunghe corna, a mangiare fieno. Poi il camion di mio zio Camillo, mia madre che con forza mi costringeva a salire insieme a mia sorella ed io che non volevo andare. Emisi, forte, due bestemmie, la terza non ebbi il tempo di pronunciarla perché mi arrivò una sberla di immane potenza che mi ruppe le labbra: “non ho mai più bestemmiato”.  Fui messo sul camion direzione Ferrara, da zia Fernanda, dove rimasi fino a quando le acque si ritirarono. Tornati a casa restavano le pulizie per liberare le stanze dall’acqua. Noi bambini stavamo sempre a giocare nelle pozze d’acqua, dove si trovava anche qualche piccolo pesce. I miei fratelli più grandi invece erano intenti a pulire la casa dal fango portato dall’acqua.
In quella grande casa avevamo un locale adibito a cantina, per accedervi bisognava scendere un paio di gradini.  Durante la piena le botti, piene del vino novello, si erano girate e spostate dalla loro sede, mio padre aprì la porta e dimenticando gli scalini ancora coperti dall’ acqua, fece un passo per entrare e profondò fino alla cintura. Ci mettemmo tutti a ridere, capimmo che il peggio era passato e che stava ritornando la tranquillità e l’allegria. Avevamo scampato il pericolo, si poteva ricominciare.

FerMala